Medioevo a fumetti: il mito di Dina e Clarenza riletto da “Vento di Libertà”

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Medioevo a fumetti: il mito di Dina e Clarenza riletto da “Vento di Libertà”

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martedì 26 Aprile 2022 - 08:54

Un mito d’origine medievale, quello di Dina e Clarenza, le eroine del Vespro, parte integrante dell’immaginario collettivo e della tradizione popolare peloritana e siciliana, cui Lelio Bonaccorso (classe 1982), noto fumettista messinese dal curriculum internazionale, riesce a dare voce splendidamente, con il suo Vento di Libertà (edizioni Tunuè, 2022), fondendo alla narrazione di un preciso contesto storico, quello della città dello Stretto e del Regno di Sicilia della seconda metà del XIII secolo, con personaggi, dialoghi, vignette, disegni, eventi romanzati, frutto di inventiva, momenti carichi di pathos, tensione emotiva, spirito di riscatto.

Ed è infatti la sollevazione di Messina e la sua successiva vittoriosa resistenza all’assedio angioino (Luglio – Agosto 1282), fondamentale nel contesto della rivolta dei Vespri (o del “Vespro”) Siciliani, scoppiati a Palermo il lunedì di Pasqua 30 marzo 1282, contro Carlo I d’Angiò, il nucleo centrale dell’opera di Bonaccorso, all’interno del quale si muovono le nostre protagoniste, le due eroine, Dina e Clarenza.

Non son mancate, sin dalla pubblicazione, recensioni positive all’opera di Bonaccorso; pertanto, obiettivo del sottoscritto – da medievista e studioso di medievalismi e storia della Sicilia – sarà quello di evidenziare i riferimenti storici della graphic novel, mettendo in luce gli aspetti più interessanti inerenti la resistenza di Messina e il suo ruolo fondamentale nel contesto del Vespro siciliano, con un riferimento “aperto” al mito popolare di Dina e Clarenza. Il mito, infatti, accresce la portata simbolica del Vespro e il suo essere manifestazione esemplare di valori condivisi, libertà, sentimento identitario, indipendenza e spirito di riscatto di Messina e della Sicilia tutta, calpestata dal governo oppressivo (specie in termini politici e fiscali) di Carlo d’Angiò.

Dina è immaginata e ritratta da Bonaccorso come una giovane donna, sensibile ma coraggiosa, legata alla famiglia e, ancor più visceralmente, alla sua terra d’origine, innamorata, sin da giovane età, del coetaneo Jacques, francese, figlio del Vicario di Sicilia al servizio del sovrano d’Angiò (Eriberto d’Orleans), mentre Clarenza viene rappresentata come una popolana dal carattere forte, carismatica, battagliera e decisa nelle sue posizioni e scelte.

Secondo la tradizione furono, infatti, proprio Dina e Clarenza a sventare l’assalto italo-francese più imponente di Carlo d’Angiò, quello dell’8 agosto 1282: avendo scorto per prime le truppe angioine, le due eroine avrebbero reagito, Dina scagliando sassi e dardi sui nemici, Clarenza suonato le campane di allarme della città per avvisare la popolazione messinese dell’arrivo imminente del nemico, dando così il tempo agli assedianti di prepararsi per la resistenza: un contributo fondamentale alla difesa della città e alla vittoriosa resistenza.

La graphic novel ha il merito di presentare, in modo originale e creativo, fatti storici realmente accaduti e, in particolare, mettere in risalto l’importante ruolo svolto da Messina e, non ultimo, il suo ruolo nello scacchiere siciliano e mediterraneo del XIII secolo: la Clavis Siciliae, fondamentale per la sua posizione strategica, di dominio e passaggio sullo Stretto, è una città portuale fiorente, animata da una vivace vita economica e commerciale, essenziale per i transiti navali da e verso il Medio Oriente, per il carico e scarico merci, l’attracco di imbarcazioni anche di notevoli dimensioni, dettagli che emergono da alcune delle vignette dell’opera, specie quelle dedicate alla difesa militare o all’arrivo della flotta di re Carlo.

La resistenza viene organizzata da Alaimo da Lentini, nobile messinese d’origine normanna, in seguito nominato stratigoto della città, schierato dalla parte dei rivoltosi, che Bonaccorso delinea come un condottiero dal portamento signorile che non manca, però, di supportare, in prima linea, la popolazione e l’esercito messinese.

La rivolta dei Vespri, che aveva coinvolto tutta la Sicilia compresa Messina, scoppiava a causa delle scelte politiche e del cattivo governo di Carlo d’Angiò, il quale, forte del supporto dei papi (tutti e tre francesi) Urbano IV, Clemente IV e, successivamente, di Martino IV (che l’angioino aveva contribuito a far eleggere sul soglio pontificio), aveva vessato l’isola, per finanziare le sue campagne militari, spostato la capitale del Regnum da Palermo a Napoli, abrogato, de facto, le funzioni del Parlamento regio e colpito i privilegi delle principali città isolane, tra le quali Messina.

Carlo era, insomma, l’artefice di quella proverbiale “mala signoria” descritta da Dante Alighieri nel canto VII del Paradiso, contro la quale tutti i siciliani, seppur con modalità e tempi diversi, si ribellarono per un ritorno alla precedente dinastia (nella persona di Costanza II di Svevia) e un ripristino di diritti, prerogative e istituzioni cancellate da un sovrano considerato tirannico e illegittimo.

La resistenza di Messina con le donne protagoniste della scena.

La crudeltà e la violenza dei francesi sono una costante lungo l’arco narrativo del fumetto, ed arrivano a minare non soltanto la libertà ma quelli che sono i capisaldi e i valori fondanti della società siciliana: la famiglia, la fede, il matrimonio, l’onore. Non è un caso che, secondo la tradizione, proprio l’atto oltraggioso di un francese (Drouet o Droetto) nei confronti di una giovane nobildonna siciliana, per giunta compiuto nei pressi della Chiesa del Santo Spirito durante le celebrazioni pasquali, stia alla base dello scoppio della rivolta dei Vespri, lo stesso onore che secondo la tradizione viene difeso e rivendicato dalle nostre due eroine peloritane.

Del resto la Sicilia stessa è fimmina,come si evince dalla narrazione e dal soggetto dell’opera, e come sottolineato nell’interessante prefazione all’opera, scritta da Nadia Terranova. La personificazione della Sicilia è il gorgoneion, la testa della gorgone, dalla quale si dipartono capelli serpentiformi (sostituiti in età romana-repubblicana con spighe di grano, a sottolineare l’importante produzione agricola dell’isola, una variante in uso ancora oggi nella bandiera della Sicilia) e il triscele (emblematicamente sta ad indicare le tre punte della Sicilia, Capo Passero, Capo Peloro, Capo Lilibeo), elementi costituenti la Trinacria, simbolo atavico della Sicilia, di una terra prospera, fertile e ricca di risorse, dotata di una cultura millenaria, ma anche insidiosa per chi non ne conosce intimamente i segreti, i suoi luoghi e non rispetta gli usi, le consuetudini, i diritti della sua gente.

Curiosa la versione stilizzata della Trinacria che viene riproposta nella copertina e all’interno dell’opera di Bonaccorso, nella sua variante con gorgoneion alata e spighe di grano attorno, simbolo che sopravvive nell’attuale bandiera della Regione SIciliana, mentre nella bandiera del Vespro verrà utilizzata la versione della trinacria con testa di gorgone attorniata dai serpenti, un richiamo al simbolo originario della Sicilia greca. Dunque, una Sicilia dotata di un fascino mortale e fatale, ardua da dominare e, ancor più, come testimonia la storia, da governare.

Dina e Clarenza divengono così specchio dell’onore e della legittimità della Sicilia intera, delle sue istituzioni d’origine normanna e dei suoi valori traditi dall’operato del belligerante e ambizioso re Carlo, emblema di una riscossa che, se da un lato è l’esito di una complessa strategia politica che vede schierati contro gli angioini il sovrano Pietro III d’Aragona, l’Imperatore di Costantinopoli Michele Paleologo, i notabili e i signori siciliani di fedeltà sveva (come Giovanni da Procida) o di nuova fedeltà siciliana – aragonese (è il caso del “capitano del popolo” Alaimo da Lentini), dall’altro è anche frutto ed espressione di una volontà popolare, che abbraccia tutti gli strati della popolazione, dai ceti medi ai contadini, dai mercanti agli esponenti dei bracci feudali e demaniali, dal clero siciliano alle forze militari.

Le due eroine, che difendono ancora oggi Messina dall’alto del campanile del Duomo e ricordano ai cittadini il loro sacrificio al suono delle campane, sono dunque espressione di questa forza motrice popolare che caratterizza la resistenza, la difesa di Messina durante l’assedio angioino del 1282, metafora di una partecipazione corale, sentita emotivamente, spiritualmente e con forte senso identitario, che vede scendere sul campo, a dispetto dell’inferiorità numerica, mercanti, nobili, popolani, soldati, contadini, artigiani, sacerdoti, uomini e, naturalmente, donne, in prima fila a dare il loro contributo accanto agli uomini per la salvezza della città.

Un episodio, dunque, che Bonaccorso mette in risalto, dove la donna è attiva protagonista e artefice dei mutamenti della “marea”, non soggetto impassibile o vittima degli eventi, come spesso sembra emergere da una diffusa narrazione storica.

Un mito al femminile che rivive nelle pagine del giovane fumettista messinese, insieme ad altri richiami storici importanti e che è doveroso citare: i motti e i detti popolari, divenuti proverbiali, come il grido “mora mora” pronunciato da siciliani nella loro conseguente e violenta “caccia ai francesi”, o “ANTUDO”, termine simbolo della sollevazione popolare che poi verrà riproposto nel vessillo del Vespro (nato in occasione della rivolta e destinato ad evolvere nella bandiera del Regno indipendente di Sicilia), esclamato dai siciliani durante la rivolta, acronimo (come ha specificato nei suoi studi lo storico Santi Correnti) della frase Animus Tuus Dominus, ovvero, letteralmente, “il coraggio sia il tuo Signore” (non i francesi); il ruolo fondamentale svolto da Alaimo da Lentini nella difesa di Messina e nell’appoggio successivo dato a Re Pietro e alla moglie Costanza di Svevia; si intravede la forte fede dei Messinesi in Dio e nel suo operato in difesa della città avvilita e mal governata dagli angioini – gli storici romantici insisteranno sull’aspetto del Vespro quale rivolta legittima, in quanto cristiana e voluta dalla divina provvidenza, in risposta a Carlo d’Angiò, che con la sua azione e il sostegno dell’operato corrotto del Papa, era andato contro l’ordo naturalis del Regnum Siciliae.

La rivolta del Vespro a Palermo (30 marzo 1282). La rivolta dei siciliani si traduce in un eccidio degli angioini occupanti, non vengono risparmiate neanche le donne che portano in grembo le future generazioni francesi. Sopra: nella vignetta compare, sullo sfondo, la Chiesa di San Cataldo (Palermo), nella piacevole rappresentazione di Bonaccorso.

Non secondaria la diversa posizione politica che le città siciliane assumono prima e nel corso della rivolta: emerge da un breve dialogo (d’invenzione) del fumetto, fra un pescatore e il padre di Dina e Leuccio, nel quale il primo fa presente al secondo come una rivolta che unisca tutte le principali realtà cittadine dell’isola sia praticamente impossibile perché – sottolinea il sottoscritto, ieri come oggi – “siamo impegnati a farci la guerra tra di noi”. All’indomani della rivolta del 30 Marzo 1282, le città siciliane si riunirono, infatti, nella Communitas Siciliae, in funzione antiangioina, ponendosi sotto la sovranità della Chiesa di Roma. L’interessante esperimento politico (seppur destinato ad esaurirsi ben presto) riuniva le universitates demaniali siciliane in una sorta di repubblica federale con a capo Palermo, alla quale, tuttavia, Messina darà il suo sostegno solo in un secondo momento: la clavis et custodia Siciliae è, ai primi di Aprile del 1282, ancora fedele a Carlo d’Angiò, nei fatti resta la seconda città per importanza nell’isola e contende il primato politico, economico, morale a Palermo – non a caso Carlo, ben consapevole della sua importanza strategica, militare, mercantile e navale, la preferisce alla ex capitale normanna come sede del Vicario reale Eriberto d’Orleans, favorisce i commerci della città (pur non ristabilendo i tradizionali privilegi) e ne fa sede dell’ammiragliato, al fine di alimentare le tensioni contro Palermo e la vecchia amministrazione sveva, della quale la popolazione messinese non serbava un piacevole ricordo.

I primi moti popolari scoppiano a Messina il 15 aprile, portano alla fuga del Vicario presso il castello di Matagrifone (in seguito verrà trucidato insieme alla guarnigione e tutta la famiglia) e alla sollevazione dell’intera città con la croce messinese innalzata a vessillo sulle mura e sulle torri cittadine, il 28 aprile 1282 (il castello verrà conquistato qualche giorno dopo), e all’adesione alla Communitas il 30 aprile. L’adesione di Messina portò alla formazione di due blocchi contraddistinti, seppur alleati, all’interno della Lega siciliana: una pars orientis, con a capo la Città dello Stretto sotto l’amministrazione di Alaimo da Lentini, di aspirazioni particolaristiche e comunali, e una pars occidentis, con a capo Palermo (la bandiera del Vespro porta i colori delle prime città che si ribellano contro gli Angiò, il rosso di Panormus e il giallo di Corleone), dove prevalgono le tesi legittimiste e regalistiche a sostegno dell’erede sveva, Costanza, figlia di Manfredi di Svevia, e Pietro d’Aragona – tesi che saranno destinate a prevalere (tranne la filofrancese Sperlinga, che sula nigau il supporto al Vespro) in seguito al rifiuto del Papa di sostenere la Communitas e di continuare ad appoggiare re Carlo.

Bonaccorso riesce, senza entrare nei dettagli e mescolando sapientemente invenzione letteraria ad eventi, fatti, soggetti storici del Medioevo siciliano (in questo, il suo, è un originale esempio di medievalismo a fumetti), a rendere pienamente giustizia al fumetto quale opera “adulta”, non soltanto lettura di svago o dedicata a una particolare frangia di lettori, ma valido strumento di divulgazione storica, spazio di riflessione sociale e politica, sul passato e sul presente, mezzo di accrescimento culturale e personale: da un lato Vento di libertà ha infatti la capacità di mostrare un affascinante ritratto storico, ahinoi spesso trascurato o poco conosciuto, di Messina, nel suo essere una città attiva, protagonista della scena economica e politica mediterranea del XIII secolo (ma manterrà un ruolo significativo, in tal senso, sino al Tardo Medioevo e alla prima età moderna), ed inoltre una città “rivoluzionaria”, poco incline ai governi dispotici e personalistici (si ricordino qui, oltre alla rivolta del Vespro del 1282, la rivolta antispagnola del 1674-1678 e l’eroica rivolta antiborbonica messinese del 1848, cui seguirà un secondo e più drammatico assedio, quello del “Re Bomba” Ferdinando I di Borbone, non a caso associato all’odiato predecessore Carlo d’Angiò).

Dall’altro, l’opera offre anche spunto per un’importante riflessione sul presente: il racconto della Messina di ieri, nel suo essere rivoluzionaria e attiva nel contesto dei Vespri siciliani, sferzata dal tipico e caldo Scirocco, è anche un ritratto indiretto della Messina contemporanea, una città che resiste, con le sue bellezze storiche, architettoniche, naturali e paesaggistiche, tradizioni popolari ed eccellenze museali, gli splendidi lidi e l’unicità dell’area dello Stretto, nonostante le cattive amministrazioni, nonostante i cataclismi naturali (si ricordi il catastrofico terremoto di Messina del 28 dicembre 1908), o la scarsa valorizzazione dei beni culturali proveniente dagli organi competenti ma anche, spesso, da un disfattismo pubblico generale.

Una città che resiste, nonostante tutto, grazie a studiosi, artisti, scrittori, che hanno scelto di non abbandonare la propria terra – o che aspirano a tornarvi per contribuire al suo risanamento – e che, nell’ultimo decennio, riesce addirittura ad affacciarsi sulla scena del fumetto internazionale, grazie a personalità come lo stesso Lelio Bonaccorso, insieme ad altri noti nomi quali Michela De Domenico, Fabio Franchi, Umberto Giampà.

Ecco che Vento di Libertà diventa un invito a non arrendersi, un racconto delle aspirazioni e della voglia di riscatto di Messina attraverso la narrazione del mito di Dina e Clarenza, il racconto di quella Clavis Siciliae, impegnata a difendersi nel XIII secolo contro nemici esterni, l’esercito italo-francese di Carlo d’Angiò, oggi, semmai, assediata dall’interno, dalla mancanza di senso di appartenenza civico, dall’abbandono in cui versano diverse e splendide aree pubbliche, dalla scarsa valorizzazione di cui son vittime sia i beni artistici, archeologici, culturali che la stessa storia della città, minimizzata da diatribe politiche che escludono il dialogo produttivo, alimentando divisioni e linguaggi violenti, tutt’altro che un preludio alla risoluzione di problemi emergenti, ferita dall’emorragia di giovani e brillanti menti, in cerca di lavoro o di migliori opportunità di vita in Italia o all’estero, lontano dalla propria terra natia.

Riecheggia, leggendo l’opera, il monito, in forma di breve componimento, di un Anonimo della Scuola Siciliana (XIII – XIV sec.), citato dallo storico del Vespro Michele Amari, dedicato all’eroica difesa della città peloritana messa in atto dalle coraggiose donne messinesi nell’agosto del 1282:

«Deh, com’egli è gran pietate
delle donne di Messina,
veggendole scapigliate
portando pietre e calcina!
Dio gli dea briga e travaglio
chi Messina vuol guastare.».

Un monito ma anche la testimonianza di una storia gloriosa, eroica e singolare della città, che tutti noi, lettori e, soprattutto, cittadini di Messina, dovremmo fare bene a non dimenticare.

Nicolò Maggio

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