La peste e il futuro dell’Europa

Redazione

La peste e il futuro dell’Europa

lunedì 11 Maggio 2020 - 15:16

di Maurizio Ballistreri *

Anche nella drammatica emergenza della pandemia, l’Europa mostra il segno di divisioni antiche, come ammoniva lo storico francese Fernand Braudel allorquando osservava che se essa non avesse posto il Mediterraneo quale chiave di volta della sua unità, i processi di integrazione non si sarebbero realizzati compiutamente.­

Ciò che non si vuole ammettere è che si deve sostituire all’egoismo, come quello di quei paesi, in testa la Germania con la sua dottrina ordoliberalista, che in Europa vogliono per miope interesse nazionale, in verità di corto respiro, bloccare la solidarietà nell’Unione attraverso la fine dell’austerity e delle bieche regole del Patto di stabilità.

E nel mentre i valori di un nuovo umanesimo, con regole economiche e sociali che pongano al centro il valore della persona e del lavoro, non sono ritenuti fondanti, si riproduce l’incertezza di un’Europa divisa e smarrita sulla solidarietà tra i popoli ma che tollera Orban e le derive autoritarie e populiste.

Ma perché, in generale, il cosiddetto “populismo” in Europa avanza si chiedono i politologi e perché il suo consenso tra la gente aumenta, anche nei territori, come il nostro Mezzogiorno, più in difficoltà, con tanti nuovi leader affetti da oclocrazia, pur non conoscendo Polibio? Già, per la verità non conoscono nemmeno i congiuntivi, per tacere di storia e geografia!

Ragionando laicamente e non per stereotipi le motivazioni sono certamente plurime. In primo luogo l’acquiescenza delle forze politiche tradizionali, quelle del popolarismo cristiano, del socialismo democratico e del liberalismo, nei confronti della “dittatura del mercato” con il suo combinato disposto: la finanziarizzazione dell’economia e l’austerity europea, con la sinistra in drammatico affanno, incapace, tranne in Portogallo e in Spagna, di recuperare il rapporto con quelle che un tempo si definivano le “masse popolari”, con il conflitto sociale per redistribuire potere e ricchezza. Paradigmatica l’affermazione di una bella rivista come “Le Monde Diplomatique” che ha definito l’ascesa delle forze politiche definite sovraniste e populiste come un “maggio ’68 alla rovescia”.

Ma c’è, sicuramente, anche un’altra motivazione che sostiene l’ascesa dei populismi. In primo luogo le politiche utilitaristiche in chiave nazionale del vecchio asse franco-renano per egemonizzare sul piano geopolitico l’Europa: alla prima doveva andare l’Europa centrale, dall’Est fino ai Balcani, con il primato dell’economia trasformando l’eurozona di fatto in una grande area del marco; alla seconda l’Europa meridionale e mediterranea, ripristinando l’antico colonialismo in chiave di protettorato sull’Africa del Nord.

Merkel e Sarkozy prima e Macron oggi, hanno commesso errori imperdonabili, dando la stura al drammatico fenomeno dell’immigrazione di massa, che ha costituito l’”asset” più importante per il consenso dei partiti definiti populisti, la Germania facendo pagare all’Ue 6 miliardi di euro alla Turchia di Erdogan (vero e proprio “laboratorio” autoritario e anti-democratico) per trattenere (invano) due milioni e mezzo di profughi, la Francia sostenendo la fine del regime di Gheddafi e di Bashar al Assad in Siria (che, invece, ha rinsaldato l’asse tra la Russia di Putin e l’Iran con il sostegno della Cina), veri e propri buchi neri per l’immigrazione disperata e senza controllo, rispetto a cui gli egoismi europei sono drammaticamente esplosi.

E dalla Siria, per di più, sono arrivati il terrorismo jihadista e milioni di profughi, quanto alla Libia siamo di fronte a un disastro ancora peggiore della guerra in Iraq degli americani nel 2003, che già sembrava un danno di proporzioni incalcolabili.

Il risultato degli “statisti” dell’asse renano è che si definita una divisione trasversale in Europa: da un lato gli euro-unitari, appesantiti dall’austerità monetarista, dall’altra il Gruppo di Visegrad capitanato dall’ungherese Orban, che rappresentano una sorta di contro-modello europeo, paradossalmente quello del generale De Gaulle dell’”Europa dei Popoli”. E così, Trump con il suo neoprotezionismo ha auto buon gioco a inserirsi nelle divisioni europee, pronuba anche la Brexit, per restituire al dollaro nelle transazioni finanziarie e all’economia made in Usa i vecchi primati globali.

Sono sempre più attuali le parole del filosofo tedesco Jurgen Habermas, nel suo libro del 2014 “Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea”: “Mentre la politica si assoggetta agli imperativi del mercato, dando per scontato l’aumento della diseguaglianza sociale, i meccanismi sistemici si sottraggono progressivamente alle strategie giuridiche stabilite per via democratica. Questo trend non potrà essere rovesciato se non nell’ipotesi – tutt’altro che garantita – che la politica riconquisti un suo potere di azione sul piano europeo”.

Su questo si deve agire in Europa quando finirà la nuova “peste nera” che ci sta opprimendo.

*Professore di Diritto del Lavoro

nell’Università di Messina,

già deputato regionale