Cronistoria del calvario di Renato, uomo in salute morto per il Covid

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Cronistoria del calvario di Renato, uomo in salute morto per il Covid

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giovedì 17 Dicembre 2020 - 11:00

Quello in foto è Renato, docente di matematica in pensione che ha insegnato in diverse scuole medie di Messina, tra le quali la “Enzo Drago”. Aveva 73 anni ed era una persona in perfetta salute: non aveva patologie pregresse, seguiva uno stile di vita sano e si sottoponeva periodicamente a controllo. Di certo non ti aspetti che uno come lui possa spirare in poco più di un mese, quantomeno non per una qualche malattia. Eppure questo è accaduto. Sono bastati 38 giorni prima che il Covid lo strappasse agli affetti dei suoi cari.

Diverse sono le variabili che hanno contribuito a causarne il decesso, tra le quali, probabilmente, anche la tempestività con la quale è stato curato: anzi, potrebbe essere la variabile. Ne è convinta sua figlia: “Se fosse stato assistito sin dall’inizio, probabilmente sarebbe andata diversamente, perché non aveva malattie pregresse, era sano come un pesce”. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di ripercorrere, sulla base della testimonianza di sua figlia, cosa ha patito Renato prima di andare incontro al suo infausto destino.

Le lentezze connesse al trattamento del Covid pare che si siano registrate sin dall’inizio, sin da quando ha dovuto sottoporsi al test del tampone: “Era il 30 ottobre quando sono insorti dei sintomi febbrili, ma solo il 4 novembre, sotto nostra insistenza, il medico di base ha attivato il protocollo per sottoporlo al test del tampone tramite l’Usca (l’Unità speciale di continuità assistenziale che assiste i pazienti Covid a casa, ndr). Il medico neanche voleva procedere in questa direzione: ci diceva che aveva già 30 pazienti con gli stessi suoi sintomi e che non era possibile fare tamponi come se non ci fosse un domani”.

L’Usca e il giallo del tampone. “L’Usca è venuta a casa di mio padre soltanto il 6 novembre, due giorni dopo l’attivazione del protocollo. Dopo il test, i medici ci hanno fatto sapere che, nel giro di qualche giorno, avremmo saputo l’esito per email. Ad oggi, tuttavia, non è arrivata nessuna comunicazione. Inutili i tentativi di sollecito per avere informazioni al riguardo: sia noi, compreso Renato quando era ancora in vita, sia il nostro medico di base abbiamo contattato l’Usca, ma non ci ha mai risposto”.

Il 118 e l’ambulatorio “fai da te”. Passano i giorni, ma il suo stato di salute non accenna a migliorare. Anzi, si verifica il contrario: è il 9 novembre – dopo oltre 10 giorni di febbre, anche con picchi di 40 gradi – quando Renato inizia ad avere difficoltà a respirare. È panico: “In quel momento ci ha chiesto di contattare il 118, ma anche in questo caso abbiamo avuto problemi. Ci è stato detto che nessuno poteva venire ad assisterlo, perché tutte le ambulanze erano già occupate. Pertanto, ci hanno consigliato di recarci in farmacia e di attrezzarci con bombola di ossigeno e saturimetro per tenerlo costantemente sotto controllo. Soltanto perché abbiamo insistito è stata inviata un’ambulanza a casa nostra”.

Ma anche una volta arrivata i problemi non sarebbero finiti: “Gli operatori del 118 hanno constatato una saturazione di ossigeno nel suo sangue di appena l’84% (valori normali devono essere superiori al 95%, ndr). Pertanto, hanno deciso di fare il tampone rapido per verificare se fosse positivo al coronavirus, ma è stato fatto male. L’esito del test, infatti, era negativo, ma a distanza di poco più di un’ora un secondo test – eseguito al “Papardo”, dove nel frattempo era stato trasferito al pronto soccorso – ha confermato la positività di mio padre al virus”.

Il 9 novembre è stato l’ultimo giorno in cui Renato ha potuto vedere i suoi cari: “Lo abbiamo visto l’ultima volta alle 18 del 9 novembre, poco prima che venisse ricoverato nel reparto di pneumologia. In quel momento lo abbiamo tranquillizzato dicendogli che sarebbe andato tutto bene, ma ovviamente eravamo molto in ansia per lui”.

Una telefonata al dì, se va bene. Una volta ricoverato, l’unica via per avere informazioni sulle sue condizioni di salute è stata quella telefonica: “I giorni passavano e mio padre era sempre più debilitato. Di conseguenza, comunicare telefonicamente con lui era sempre più difficile, se non addirittura impossibile. Pertanto, dovevamo telefonare al personale ospedaliero per avere informazioni sul suo stato di salute. Potevamo fare una chiamata al giorno, ma era difficile che qualcuno rispondesse. E quando quel qualcuno rispondeva abbiamo vissuto un’esperienza terribile: nella stragrande maggioranza dei casi, soprattutto durante la fase iniziale del suo ricovero, abbiamo avuto a che fare con gente scortese e priva di umanità (ci dicevano cose del tipo: ‘Signora mica stiamo giocando, suo padre non è l’unico!’). Non sono mancati i casi in cui ci hanno staccato il telefono in faccia”.

La cura e l’assistenza. “È stato curato con un antibiotico blando, senza somministrargli, se non verso la fine, un qualche antivirale; solo dopo 4 giorni hanno iniziato a somministrargli il cortisone. Ci siamo fidati ciecamente dei medici e abbiamo fatto male. Se avessi fatto qualcosa di testa mia non mi sarei perdonata di aver danneggiato la sua salute. E adesso non mi perdono di non aver fatto abbastanza”.

“Verso la fine gli è stato messo il catetere per ridurre quanto più possibile i suoi spostamenti dal letto, in modo da non affaticarsi, ma è stato abbandonato a sé: non c’era neanche un campanello per chiedere assistenza. Poiché non ce la faceva più a parlare, si vedeva costretto a sbattere un contenitore di plastica sul comodino per attirare l’attenzione del personale ospedaliero. Non lo aiutavano neanche a mangiare: ad esempio, ha perso un’ora per schiacciare delle polpette. Tra l’altro, dal 16 novembre indossava il casco CPAP, perché l’ossigenazione tramite mascherina non era più sufficiente. Pertanto, anche il solo atto del mangiare era divenuto un’impresa per lui, perché era costretto a passarsi, da solo, il cibo alla bocca da un foro laterale”.

Un esempio di casco CPAP

Dal 20 novembre, 11 giorni dopo il suo ricovero in ospedale, Renato viene intubato. Di lì in poi si registrerà un costante tracollo delle sue condizioni di salute per poi morire il 6 dicembre per arresto cardiaco. “Non ho potuto neanche vedere la sua salma, perché la camera mortuaria ospedaliera non è stata attrezzata con un divisore in vetro che ci consentisse di poterlo vedere per un’ultima volta”.

La famiglia di Renato adesso vuole vederci chiaro su quanto accaduto, al fine di capire se ci sono eventuali responsabili della sua morte. “L’appello che voglio fare è che la gente apra gli occhi: è bene fidarsi dei medici, ma non ciecamente come abbiamo fatto noi. Bisogna agire tempestivamente contro questa malattia, chiaramente senza ledere la salute degli altri”.